Ci sono insetti su Marte? Ecco lo scenario e le nuove missioni

SMENTITA DALLA COMUNITÀ SCIENTIFICA LA PRESENZA DI INSETTI SUL PIANETA ROSSO. EPPURE LA RICERCA DI FORME DI VITA ALIENE È SOLO AGLI ESORDI

Fonte: NASA’s Planetary Photojournal

Nell’era dei social, periodo nel quale si sente spesso dire che la tecnologia rende più soli, una fotografia dello spazio profondo e solitario fa brillare con maggiore intensità un suo singolo pixel. Siamo ai confini del Sistema Solare e quel puntino, distante 6 miliardi di chilometri, è il nostro pianeta, la Terra. Quattro anni dopo, nel 1994, Carl Sagan, l’astronomo che aveva chiesto alla NASA di scattare quella foto chiamandola Pale Blue Dot, la riprese nel suo libro per esordire con questa riflessione: “Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse. Ma per noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico. La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte”.

D’altra parte la prospettiva umana d’incontrare delle intelligenze extraterrestri si è sempre rinnovata, prendendo forma in molti progetti. In particolare negli anni 60, l’astronomo americano Drake trovò un’equazione, nominata in seguito con il suo nome, che consentiva di stimare il numero di civiltà presenti nella Via Lattea, partendo da delle variabili che nel corso dei decenni successivi sarebbero diventate sempre più studiabili e definibili.  L’impegno scientifico e l’immaginario letterario rivolti al chiedersi se ci sia vita nello spazio si sono anche combinati, trovando in Isaac Asimov il loro punto di riferimento scolpito nell’immaginario collettivo, ancora oggi, a cento anni dalla sua nascita.

In questi mesi però circola un altro mistero che vede protagonista Marte e benché la notizia sia già stata invalidata dagli esperti, le considerazioni che essa apre non sono prive di altrettanto interesse.

Dr.ssa Barbara Cavalazzi – Society, Notte dei ricercatori

LA TEORIA SCONFESSATA – Lo scorso novembre, diversi giornali avevano dedicato parole roboanti per parlare di un fantomatico studio presentato  durante una riunione nazionale americana di entomologi (studiosi degli insetti). In particolare, il professor William Rosomer dell’Università dell’Ohio aveva presentato la sua scoperta, mostrando dei depositi rocciosi del Pianeta Rosso e affermando che fossero insetti e simil-serpenti. Inoltre questi era arrivato a dichiarare che alcune macchie scure avrebbero provato l’esistenza di animali volanti. Tutto ciò era stato poi ritirato non trovando alcun supporto dal resto della comunità scientifica. Allo stupore collettivo dei media, erano seguiti diversi interrogativi sulla bontà o meno di quanto Rosomer aveva affermato e se dalla sua teoria fosse possibile estrapolare elementi veritieri. A unirsi al coro degli scettici c’é la Dr.ssa Barbara Cavalazzi, ricercatrice presso l’Università di Bologna nell’ambito di geobiologia e di astrobiologia: “L’evidenza nell’aver trovato insetti viventi su Marte mediante l’uso di foto scattate dai rover (veicolo funzionale al trasporto su un corpo celeste) cade nei casi di pareidolia (fenomeno che consiste nella elaborazione fantastica di percezioni reali incomplete, simili a immaginarsi le nuvole prendere le forme di animali od oggetti) per la quale dagli anni ’70 è stato visto di tutto su Marte. Prima di poter affermare la presenza di vita sulla superficie del pianeta bisogna avere anche dei biosegnali”. Del resto non avrebbe senso trovare insetti su Marte senza la presenza di un habitat abitabile. Non esistono indizi che puntano alla presenza di ecosistemi dove gli insetti possono vivere. Banalizzando si potrebbe dire che in questo caso un’immagine non vale più di mille parole. L’evidenza va ricercata altrove e vanno ridimensionate le aspettative.

Selfie scattato da Curiosity – 11/10/2019

I BIOSEGNALI MARZIANI – La Dr.ssa Cavalazzi -i cui principali approfondimenti di ricerca sono lo studio dell’origine della vita e degli habitat primitivi, gli ambienti estremi e i procarioti moderni- afferma che “se su Marte c’è vita è più semplice pensare a organismi che come sulla Terra si sono adattati a vivere in condizioni di vita estrema. Sulla Terra gli organismi estremofili (che abitano ambienti estremi) sono per il 95% dei casi di procarioti, forme microbiche”. L’analisi di questi organismi estremamente versatili sui pianeti rocciosi del Sistema Solare è stata al centro di diversi dibattiti. “Ci saranno degli studi decennali per capire la composizione dell’atmosfera” aggiunge la dottoressa.

In particolare si è alla ricerca di ossigeno molecolare e di metano. Prendendo come esempio quella Marte, oggetto di studi del rover Curiosity dal 2012 tramite uno spettrometro di massa chiamato S(ample) A(nalysis at) M(ars), essa risulta più rarefatta di quella terrestre. Essa possiede ossigeno in basissime percentuali (0,16%) e subisce diverse variazioni a seconda delle stagioni. Come spiegato da Wired: “durante la primavera e l’estate la concentrazione dell’ossigeno molecolare in atmosfera aumenta in media del 30% in più rispetto a quanto previsto dai modelli matematici, per poi tornare all’interno dei parametri attesi in autunno“. Esclusa la teoria geologica -secondo cui sarebbero le radiazioni a consumare il vapore acqueo e a trasformarlo in ossigeno- Focus ripropone la teoria più accreditata secondo cui questi mutamenti sarebbero imputabili dalla “respirazione di alcune forme batteriche adattate anche alle radiazioni più intense e che dunque possano vivere, se non proprio sulla superficie, perlomeno a poche decine di centimetri in profondità”.

Oltre all’ossigeno, un’altra molecola d’interesse per la presenza di vita è il metano (CH4). Sulla Terra il 95 % del metano è riconducibile a processi biologici. Gli studi partono negli anni ’90 ma è solo nel 2003 che arriva in orbita marziana MarsExpress (una sonda europea) che scopre un’enorme quantità di metano. Sulla Terra è legato a una particolare forma di batterio, perciò è possibile che sia lo stesso per Marte.

Ma a complicare il tutto interviene THO (Trace Gas Orbiter), che nell’ottobre 2016 ha condotto una serie di osservazioni che andavano a misurare in modo molto dettagliato il quantitativo di gas di traccia (ovvero frazioni minuscole di un volume d’aria) nell’atmosfera di Marte ma fallendo nel suo intento di trovare del metano. Infine, ancora grazie alle analisi di Curiosity, l’anno scorso è stato individuato il picco più alto di gas metano nell’atmosfera di Marte mai registrato da quando è atterrato sul pianeta nel 2012.

La Dr.ssa Cavalazzi non esclude un’imprecisione dettata dai limiti dei dati a nostra disposizione: “La produzione di metano potrebbe essere un qualcosa di episodico con delle sequenze effimere, quindi potrebbe accumularsi in fasi non costanti per cui, essendo state fatte le misure in tempi diversi, potrebbe essere una conseguenza di averlo e non averlo visto”. Servirà uno studio più duraturo ed esteso a risolvere l’arcano.

Rosalind Franklin, rover della ESA

MISSIONI 2020- Il decennio appena iniziato sarà tutto fuorché noioso per le esplorazioni nello spazio, avendo Marte come protagonista. In generale la Decadal Survey offre tutto il ventaglio di attività che gli scienziati USA hanno proposto al loro governo. Essa consiste in una serie di riunioni comprendente tutti gli scienziati di tutti i principali campi di astrofisica e scienze planetarie che discutono per capire quali indagini hanno la priorità. Queste vengono poi presentate sottoforma di elenco ai congressi per stabilire il budget da investire per le agenzie spaziali.

Come spiegato dal divulgatore di astrofisica e astrobiologia, Adrian Fartade,  le missioni previste quest’anno saranno ben quattro: Exomars, Mars2020, Hope, HX-1. Esse sono state organizzate rispettivamente: dall’europea ESA insieme alla russa Roscosmos, dalla NASA,  dall’UAE Space Agency degli Emirati Arabi e dalla cinese CNSA. La Dott.ssa Cavalazzi spiega il valore di questi progetti: “Non siamo ancora stati su Marte a raccogliere dei campioni e a studiarli direttamente lì. Questo sarà l’obbiettivo delle missioni come la ExoMars europea e la 2020 americana. Di fatto le ultime missioni astrobiologiche per eccellenza che poi sono apparentemente fallite sono ancora le Mariner negli anni ’70”.

La missioni congiunta di Europa e Russia avrà il compito di portare sul Pianeta Rosso un lander (navicella che effettua la discesa sul corpo celeste), che farà anche da stazione meteorologica, e un rover chiamato Rosalind Franklin, in onore della scienziata che contribuì alla scoperta della struttura a doppia elica del DNA, dotato di una trivella lunga 2 metri per scavare nel Pianeta. Mars2020 è una vera e propria missione astrobiologica il cui obiettivo risiede nel trovare e conservare dei campioni in attesa di una successiva missione in grado di riportarli sulla Terra. Il procedimento sarà simile a quello adottato con Curiuosity ma con nuovi strumenti, incluso un elicottero che dovrà studiare la zona intorno al Rover (veicolo adibito al trasporto) per aiutarlo con la navigazione. Queste partiranno rispettivamente il 17 e il 25 luglio. Gli Emirati Arabi, in quella che è la loro prima missione, si concentreranno sullo studio delle tempeste di sabbia con l’uso di un orbiter (parte della navetta spaziale che si stacca dal vettore propulsore e viaggia per un certo periodo attorno un’orbita prefissata), mentre, al momento, la Cina non ha condiviso molte informazioni. Farà uso di un orbiter, di un lander e di un piccolo rover in partenza nel periodo estivo.


RESTARE PER PARTIRE- 
La professione dell’astrobiologo, come raccontato da Barbara Cavalazzi, si è evoluta nel corso degli ultimi 20 anni arricchita dalla polifonia di background in specifici ambiti della ricerca. La paleontologia, che ha come oggetto di studio le tracce di forme di vita fossile, è una di queste voci che vede la Dott.ssa impegnata nello studio di rocce antiche di oltre 3 miliardi di anni dal sud Africa. Inoltre le sue ricerche sui fossili presenti nella Rift Valley, spiega la dottoressa Cavalazzi, sono finalizzate alla descrizione degli “ambienti fisici per capire dove in essi si sviluppa la vita e qual è il potenziale di preservazione di tracce di vita”. Questo lavoro è fondamentale se inteso come studio preparatorio a quello che verrà intrapreso dai rover su Marte. Capire quali rocce valga la pena di studiare una volta arrivati sul Pianeta consentirà a questi di non sprecare tempo prezioso, in un ambiente così poco controllato in cui non possono sopravvivere a lungo per problemi di usura. 

Così, per cercare delle prove di presenza di vita, i geologi  si stanno preparando sulla Terra con una spedizione in Australia. Lì “ci sono tra le rocce più antiche meglio conservati in cui sono contenute forme di vita. – continua Cavalazzi – Si parla di 3.4 miliardi di anni fa. In particolare ci sono i minerali più antichi (4.4 miliardi di anni) ma sono incassati in rocce metasedimentarie riformatesi da disgregazione di rocce preesistenti. In Australia è famosa perché ci sono conservate queste strutture organo sedimentarie prodotte dai batteri che oggi potremmo dire sono ancora riconosciute tra le forme di vita più antiche che noi consociamo nel nostro pianeta”.

Messaggio di Arecibo

CHI TROVERÀ CHI PER PRIMO? – Dovremo accontentarci di batteri e altre forme microscopiche di vita aliene? Ni. La ricerca di biosegnali nei pianeti del Sistema Solare corre in parallelo con quella rivolta all’esterno, come agli esopianeti (ovvero a pianeti che orbitano attorno ad una stella diversa dal Sole).

Lo scorso mese, il nuovo telescopio spaziale della Nasa chiamato TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) ha scoperto il suo primo nuovo sistema planetario. Come spiegato da Focus “il fatto che un pianeta di una stella lontana si trovi in quella che stimiamo essere la fascia di abitabilità di quella stessa, non implica che ospiti la vita né che l’abbia mai ospitata”. La vita, oltre a essere un concetto, è anche un processo dai tratti misteriosi che non può lasciarci indifferenti. Tuttavia alla meraviglia va aggiunto del sano scetticismo.

E se bisogna rinunciare all’ennesima bufala d’insetti trovati sulla superficie di Marte, ciò non deve sminuire l’appassionante universo della ricerca umana nel comunicare con l’esterno. Chi lo sa? Magari saremo noi come specie umana ad aver successo, superando vecchi progetti (quali il messaggio di Arecibo, i Voyager Golden Records e la Placca dei Pioneer) più legati a una dimostrazione delle conquiste tecnologiche raggiunte dal genere umano che a un reale tentativo di comunicare con gli alieni. Viceversa potrebbero essere quest’ultimi a raggiungerci come per diversi anni ci aveva suggerito un forte segnale radio chiamato “Wow”. 

di Francesco Scomazzon

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